Il Progetto di Volontariato in Nepal di un nostro studente, Giulio Calgaro


Sono in tanti i professionisti, i medici e gli studenti di Humanitas a partecipare ad esperienze di volontariato e/o impegno pubblico per la salute globale. L’assistenza e lo sviluppo medico-sanitario nei Paesi più poveri del mondo rappresentano, infatti, per i futuri medici un’importante esperienza di crescita professionale e di grande valore umano. Abbiamo raccolto le loro storie. Giulio Calgaro è uno studente che frequenta il quinto anno di Medicina presso Humanitas University. Un anno fa ha sentito l’esigenza di fare un’esperienza di volontariato e ha programmato un viaggio in alcuni villaggi del Nepal per mettere a disposizione di popolazioni molto povere e arretrate le sue conoscenze mediche e il suo tempo. Abbiamo chiesto al futuro medico di raccontarci la sua esperienza professionale e umana in Nepal.

Quali motivazioni ti hanno spinto a intraprendere questo viaggio?

“Arrivato a un certo punto del mio percorso di studi, ho realizzato che con le nozioni mediche fino ad allora acquisite avrei potuto iniziare subito ad aiutare il prossimo. Ho pensato che sarebbe stato ancora più gratificante farlo in una realtà estranea a noi, con un livello pressappoco inesistente di sanità e condizioni di vita precarie. Ed è proprio ciò che è accaduto nell’estate 2019: io ed un amico di origini nepalesi abbiamo avviato con successo un Progetto di volontariato in Nepal durato circa ventuno giorni”.

Che tipo di attività hai svolto in Nepal?

“I primi due giorni li abbiamo dedicati esclusivamente a visite ambulatoriali generali (general check-up), effettuati all’interno di tendoni posti nel cortile di una scuola elementare, a quasi 200 pazienti. Nei giorni successivi, con grosse difficoltà e in condizioni difficili e imprevedibili, abbiamo raggiunto tre villaggi che distavano tra le 24 e le 48 ore uno dall’altro. Per rendere l’idea, occorrevano quattro ore per fare settanta chilometri a causa delle critiche stradine di montagna e dei precari mezzi di trasporto a nostra disposizione. Come se non bastasse, la stagione dei monsoni fungeva da (scomoda) cornice. Successivamente abbiamo trascorso un paio di giorni in un villaggio sito nella cittadina di Chitwan, dove abbiamo avuto la possibilità di lavorare con un’équipe di esperti per fare visite di controllo agli occhi. In quella zona in particolare, sono frequenti due problematiche: la cataratta e lo pterigio, una malattia della superficie dell’occhio determinata da una crescita anomala della congiuntiva sulla cornea che, alla lunga, interferisce con la visione. Grazie ad alcune attività di servizio pubblico, siamo riusciti a raccogliere i fondi necessari a pagare 23 interventi di cataratta, i quali sarebbero stati eseguiti in un ospedale della città. Il prezzo di ogni singolo intervento ammontava a 50 euro (considerate che in Nepal uno stipendio medio mensile si aggira attorno ai 70 euro). L’attività di food camp è stata un’altra meravigliosa e gratificante esperienza che abbiamo avuto modo di fare. In quei giorni infatti, abbiamo cucinato e sfamato moltissimi sfollati dalle aree colpite dal terremoto verificatosi nel 2015, il più forte registrato degli ultimi 80 anni. In un altro villaggio poi, abbiamo potuto collaborare con un’associazione che affianca donne vittime di violenza e di bambini affetti da disturbi psichici. Abbiamo giocato, ballato, e disegnato: cose molto semplici per noi, ma estremamente significative e preziose per loro. Ci hanno raccontato che, in quelle zone così povere, le persone affette da disturbi mentali vengono relegate per tutta la vita in una cantina o fattoria perché, per la mentalità di quella popolazione, quel tipo di problema rappresenta una maledizione da tenere nascosta”.

Con quale stato d’animo hai vissuto quell’esperienza?

“A causa delle difficoltà negli spostamenti e dei pericoli che ho dovuto affrontare soprattutto nei primi giorni, alternavo momenti di grande entusiasmo, di voglia di mettermi in gioco per aiutare il prossimo, a momenti di smarrimento e sconforto. Il fatto di dover essere sempre attento alla mia sicurezza – anche per quanto riguarda l’igiene, il rischio di malattie, l’acqua, il cibo ecc.- a livello mentale ha rappresentato un forte stress che più volte mi ha messo a dura prova, ma che alla fine si è rivelato essere il momento formativo più importante di questa esperienza”.

Che cosa ti ha dato questa esperienza dal punto di vista professionale?

“Dal lato professionale, una cosa importante che ho imparato è che ogni storia clinica va contestualizzata. Mi spiego meglio: quando nel nostro Paese si chiede al paziente se fuma, se beve alcol, se fa uso di droghe ecc., è scontato che si riceva sempre una risposta. In Nepal questo non avviene perché, per la cultura di quel popolo, tutto questo è tabù. Ora so che qualora dovessi un giorno entrare in contatto nuovamente con la medesima realtà culturale come medico, saprò come comportarmi sotto questo punto di vista, indagando in maniera più approfondita. Inoltre, ho avuto modo di appurare che in Paesi come questo, la correlazione tra alimentazione e salute è particolarmente stretta e significativa. Per esempio, in Nepal ho diagnosticato moltissimi casi di gastrite dovute al tipo di alimentazione speziata e piccante, nonché all’assunzione di bevande gassate. Insomma, nulla a che vedere con le nostre abitudini alimentari”.

E a livello umano?

“A livello umano, come già accennato, questa esperienza è stata per me un intenso allenamento di resistenza mentale a causa delle tante difficoltà incontrate, nonché un vero e proprio banco di prova. Non meno importante, però, è stata la lezione di grande umanità ricevuta da persone che non hanno nulla da offrire se non gentilezza, ospitalità, condivisione e assenza di pregiudizi”.

Ricordi un momento particolare che hai vissuto in Nepal?

 

“Il momento di cui ho il ricordo più vivo è stato quando, durante le attività con i bambini, ho conosciuto un bimbo di circa 5-6 anni, molto timido e triste. Dopo aver giocato con lui a pallone per 2-3 ore, ho visto la sincera felicità sul suo volto e questo mi ha enormemente gratificato. Ricordo poi di una donna sui 30-40 anni che, durante un ballo di gruppo, mi ha dato un colpo di bacino e io, per gioco, ho fatto scherzosamente altrettanto con lei. Inspiegabilmente, la donna si è arrabbiata e mi ha tirato un calcio. Il responsabile dell’associazione mi ha poi spiegato il motivo di quella reazione: si trattava di una donna vittima di maltrattamenti e violenze e il mio gesto aveva fatto riaffiorare il suo trauma. È stata per me una lezione di vita: l’importanza di conoscere la persona prima di agire è uno step fondamentale”.

Come descriveresti in tre parole la tua esperienza in Nepal?

“Imprevedibile, istruttiva (dal punto di vista professionale e umano) e creativa, perché senza gli strumenti della normale vita quotidiana, che si danno per scontati, bisogna sapersi arrangiare con quello che si ha”.

HUMANITAS GROUP

Humanitas è un ospedale ad alta specializzazione, centro di Ricerca e sede di insegnamento universitario. Ha sviluppato la sua organizzazione clinica istituendo centri di eccellenza specializzati per la cura dei tumori, di malattie cardiovascolari, neurologiche e ortopediche – oltre che un centro oculistico e un fertility center.