Il Prof. Mantovani a Wired Health: quello che la scienza non sa
Nei giorni 4 e 5 giugno 2020 si è svolta la terza edizione del Wired Health, l’evento dedicato alle tecnologie nell’ambito del settore della salute. I temi di questa edizione si sono focalizzati su come le nuove tecnologie e l’innovazione in generale possono supportare le scienze della vita, insieme ovviamente alle competenze dei singoli. Ed è proprio su questo tema e sull’importanza del dubbio come motore della ricerca e della conoscenza che è intervenuto Alberto Mantovani, professore emerito di Humanitas University e direttore scientifico di Humanitas.
Professore, qual è il valore del dubbio nella scienza?
La scienza si basa sul subbio. Tutti i giorni mettiamo in dubbio le nostre conoscenze. Socrate dice “Io so di non sapere”. Io credo che questo sia il fondamento della scienza e direi che Covid-19 ce lo ha ricordato in modo drammatico. Il virus non ha studiato sui testi di immunologia e, quindi, alcuni degli schemi che utilizza non sono quelli che noi conosciamo e questo ha avuto e ha delle implicazioni anche pratiche.
Bisogna avere onestà davanti ai dati. I dati vanno messi al primo posto, perché sono l’elemento fondamentale della scienza. Se rispettiamo i dati, rispettiamo i pazienti. Occorre riconoscere dove abbiamo dati e certezze e dove, invece, abbiamo dubbi e ignoranza. E di quest’ultima ne abbiamo tanta, io per primo.
In questi ultimi tempi sentiamo spesso dire che la scienza dovrebbe darci delle certezze. Secondo lei, l’opinione pubblica ha capito che la scienza non può dare risposte immediate?
In medicina e nella scienza in generale non mancano certo motivi di dubbio e incertezza e ancor di più se si parla di previsioni. Non sappiamo come si evolverà il Covid-19 e se c’è una cosa su cui è facile sbagliare è fare una previsione. Quello che, però, possiamo dire è che, se avessimo usato e usassimo in modo corretto i dati, avremmo avuto e avremmo oggi meno problemi, perché i dati usati in modo scorretto possono indurre a comportamenti irresponsabili.
Un errore del passato è stato quello di considerare il Covid-19 alla stregua di un’influenza. I dati non dicevano affatto quello; al contrario, ci dicevano che questo virus era uno tsunami in arrivo, e uno dei primi ad accorgersene è stato il nostro professor Maurizio Cecconi, definito dal Journal of the American Association uno dei tre “eroi della pandemia” e insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Repubblica.
E che cosa ne pensa delle “patenti di immunità”?
Quando si afferma che possiamo dare patenti di immunità sulla base degli anticorpi non si rispettano i dati, perché noi non siamo in grado al momento di sapere se un certo livello di anticorpi dia effettivamente protezione. Semplicemente non lo sappiamo.
Sento dire che il virus è diventato “buono”, che si è attenuato, ma purtroppo al momento non ci sono dati che ce lo confermino. Abbiamo a disposizione migliaia di sequenze che possiamo leggere ma da esse non emerge che il virus si sia fatto davvero più “gentile”.
La malattia è cambiata, ma le spiegazioni possibili sono diverse. I malati sono meno gravi, arrivano prima, li curiamo meglio, con la primavera e il caldo tutte le infezioni respiratorie diminuiscono. Naturalmente, io mi auguro che il virus si sia indebolito, ma occorre evitare che una simile convinzione induca a comportamenti irresponsabili.
Professore, lei parlava del sequenziamento del virus: a che punto siamo e qual è il contributo dell’Italia?
In questo momento abbiamo più di 5000 sequenze complete del genoma virale. L’Italia, fino a questo momento, ha dato un contributo relativamente piccolo al sequenziamento del virus. Credo che lo scenario cambierà presto, perché Fondazione Cariplo ha sostenuto un esercizio di sequenziamento massiccio nella regione Lombardia, in cui sono stati sequenziati più di 500 genomi virali in aree diverse.
La parte che ci interessa in modo particolare è quella che viene chiamata “spike”, l’àncora con cui il virus si attacca alla cellula quando entra nel nostro organismo attraverso le goccioline e quindi attraverso le vie aeree superiori e profonde. Spike è un bersaglio per gli anticorpi, per i vaccini.
Perché l’Italia ha contribuito poco al sequenziamento del virus fino a questo momento?
I motivi sono diversi. L’Italia ha contribuito poco nel senso che ha messo poche sequenze in banca dati, in quanto i finanziamenti pubblici alla ricerca nel nostro Paese arrivano con ritardo. Il sequenziamento massiccio fatto in Lombardia è stato sostenuto da una grande charity, la fondazione Cariplo, e, come è successo in Cina e in altri Paesi, ciò è avvenuto senza una valutazione dei pari. Abbiamo fatto “medicina di guerra” ma andava fatta anche “ricerca di guerra”, come è avvenuto in altri Paesi. Penso che questa sia una lezione per il futuro. Ci sono situazioni in cui è necessario che chi ha responsabilità faccia delle scelte di percorsi accorciati. Se abbiamo un nemico da affrontare dobbiamo conoscerlo.
Parlando di analisi tra pari, ritiene che questa pratica cambierà d’ora in avanti, visto che ha il difetto di essere un po’ lenta?
Sì, ha il difetto di essere lenta e poco adatta a fronteggiare situazioni di emergenza. Faccio un esempio storico: durante la Seconda guerra mondiale si è deciso di finanziare la ricerca sulla penicillina, così la penicillina è diventata un farmaco. È stato un piccolo gruppo di persone ad assumersi la responsabilità della scelta. Lo stesso, in un certo senso, abbiamo fatto noi. La casa di alta moda italiana Dolce & Gabbana ha dato risorse al mio gruppo per fare ricerche sul Covid-19.
In questi ultimi mesi, secondo lei, è cambiato il modo di trasmettere la conoscenza e comunicare la scienza?
Il modo con cui comunichiamo la scienza è cambiato radicalmente di fronte all’emergenza. Le grandi riviste scientifiche sono diventate più veloci e poi si è amplificato in modo logaritmico il meccanismo di conoscenza, di condivisione della conoscenza online che ora è open access, cioè accessibile a tutti.
Faccio due esempi concreti. Il primo è stato l’esercizio di guardare i genomi della popolazione italiana guidato dal prof Duga per capire se ci fosse qualcosa di particolare in essa relativamente alla porta di entrata del virus e del sistema enzimatico che la apre. Questo studio è stato messo in open access e ha aperto la strada a uno studio di genetica della popolazione europea in relazione alla gravità della malattia. Infatti ritengo sia molto importante studiare oltre alla genetica del virus, quella dell’ospite. Ancora, appena abbiamo avuto i dati dei i livelli di anticorpi di 4000 del personale di Humanitas, studio guidato da Prof maria Rescigno, li abbiamo resi disponibili a tutti attraverso delle piattaforme di open access, in modo tale che chiunque potesse vedere questi dati, potesse analizzarli, valutarli e utilizzarli. Questa è scienza aperta, questo è il mondo digitale che ci ha cambiato.