Da specializzanda in Hunimed a capo-reparto di terapia subintensiva in Humanitas Gavazzeni


L’emergenza contro il Covid-19 richiede l’impiego di tutte le forze sanitarie a disposizione del nostro Paese. La situazione è tale che nei presidi sanitari sono stati coinvolti anche molti giovani dottori in medicina che ancora stanno svolgendo la specializzazione.
Tra questi c’è Aurora Zumbo – 29 anni, di Reggio Calabria, laureata all’Università di Messina – al quarto anno di specialità in Medicina Interna in Humanitas University, che ha scelto di aiutare i colleghi medici che lavorano in Humanitas Gavazzeni di Bergamo.
Insieme a lei ripercorriamo brevemente la sua storia, cominciando dall’inizio del percorso della specializzazione.

Da Messina a Rozzano: perché la sua scelta è caduta su Humanitas?
«Da una parte avevo l’idea di fare la specialità in America, avevo già comprato i libri e avevo prenotato il test che si doveva svolgere a Roma. Avevo però lasciato aperta una finestra su Humanitas, l’unico posto che secondo me in Italia mi avrebbe permesso di fare ricerca oltre che di avere competenze come medico di reparto. Mi sono detta: se riesco a entrare in Humanitas resto in Italia, altrimenti vado in America. Sono stata fortunata, sono entrata al primo scaglione per cui non mi sono nemmeno presentata al test di Roma».

Se dovesse fare un bilancio di questi quattro anni di specialità in Humanitas…
«Direi che sono molto contenta della mia scelta. Questo corso ci ha permesso di formarci al meglio, tanto che il terzo anno – cosa che, per quanto ne so, non succede nelle altre Università – è stato interamente dedicato alle urgenze, con sei mesi attivi in pronto soccorso e sei mesi in terapia intensiva. Un modo assolutamente innovativo di vedere la specializzazione che tra l’altro oggi, in questa situazione di emergenza, mi permette di sentirmi tranquilla dal punto di vista delle competenze. L’avere affrontato un anno in questa direzione mi ha permesso di acquisire conoscenze e abilità che non tutti i medici di reparto hanno».

Veniamo proprio a questi giorni di emergenza. Com’è nato il suo coinvolgimento che l’ha portata a Bergamo, in Humanitas Gavazzeni?
«Tutto ha avuto origine da una richiesta del mio direttore di scuola di specialità, che mi ha convocata e mi ha detto: “Aurora, Bergamo in questo momento è in una situazione molto complicata, molto complessa. Noi ti avremmo scelta per dare una mano, tu te la senti?”. Ho risposto di sì, a patto che mi permettessero di avere un punto d’appoggio su Bergamo, che mi consentisse di non dovermi spostare ogni giorno».

Una scelta difficile, da fare. Non ha avuto dubbi?
«No, nessun dubbio. Devo dire che in un primo momento a Milano non eravamo a conoscenza di come fosse realmente la situazione qui a Bergamo. L’emergenza era iniziata giusto qualche giorno prima ed era difficile immaginare che la situazione fosse così drammatica, per cui non riuscivo a capire perché cercassero di coinvolgere anche noi specializzandi. Ma dopo aver parlato con alcuni colleghi che erano già in Gavazzeni ho capito che cosa stesse accadendo e ho deciso di partire immediatamente e il giorno dopo ero già a Bergamo».

Di che cosa si occupa, nello specifico?
«Credevo di arrivare a Bergamo e di dover prestare il mio supporto come medico specializzando e invece appena arrivata in Gavazzeni, proprio in virtù delle conoscenze maturate durante la specialità, mi è stato chiesto di occupare il ruolo di capo turno di un reparto. Per cui ora mi occupo, insieme ad altri due miei colleghi, della gestione di 40 malati in terapia subintensiva affetti da polmonite da Coronavirus. Si tratta di malati molto complessi, che richiedono l’impiego della ventilazione meccanica, che non tutti sono in grado di gestire, perché per farlo servono competenze specifiche ».

Per poter agire con efficacia si dice che facciate turni molto duri, anche di 12-14 ore, è vero?
«A volte anche di più, dipende dalle situazioni. È chiaro che in un reparto con pazienti così instabili, perché non si tratta di un reparto di medicina interna normale, non si può parlare di orari. Abbiamo a che fare con persone che hanno per la maggior parte tra i 50 e i 60 anni e che arrivano da noi con quadri di polmonite in stato avanzato per cui sono molto fragili: anche quando è finito il turno nessuno di noi si sente di andare a casa fino a che non si è sicuri che tutti siano stabili e in una condizione tale da permetterci di riposare la notte».

Umanamente, come si riescono a trovare le forze per affrontare una situazione del genere?
«Spesso anche io me lo chiedo, senza riuscire a darmi una risposta. Il riposo per noi non è mai veramente un riposo, con la testa siamo sempre lì, dai nostri pazienti, anche se sappiamo di averli lasciati nelle buone mani dei nostri colleghi. In questo momento così difficile, potrà sembrare strano ma l’unica cosa che ci dà veramente un po’ di sollievo è parlare con i pazienti, capire quali sono le loro necessità, cercare di aiutarli ad affrontare la loro situazione, anche dal punto di vista psicologico, nel modo migliore possibile. Spesso uso il mio telefono per farli parlare con i parenti, perché sono davvero soli, spaventati ed estremamente lucidi. Il sentire la voce della moglie o del marito, dei figli o dei nipoti è per loro davvero importante. Anche la nostra vicinanza può essere in parte di loro conforto, ma bisogna considerare che noi siamo bardati e protetti da tute davvero infernali, è difficile parlare con loro e stabilire un rapporto umano con questo filtro, che può apparire per certi versi mostruoso».

Il vostro è un lavoro davvero difficile, che richiede una preparazione tecnica ma anche la capacità di instaurare un rapporto reciproco con il paziente…
«È il lavoro che abbiamo scelto di fare, ed è giusto che tutti noi medici, infermieri, operatori sanitari si dia una mano in questo senso perché la nostra presenza in questo momento è fondamentale soprattutto, ripeto, per la condizione di solitudine in cui si trovano queste persone. Aiutarle ad avere un contatto con i parenti, anche se solo telefonico, per loro è fondamentale, spesso decidono di lottare solo perché sanno che a casa c’è qualcuno che li aspetta e che dice loro, al telefono: «Ti vogliamo bene, torna presto».

Si sente di aggiungere qualcosa su Humanitas Gavazzeni?
«Ero già stata in Gavazzeni qualche anno fa e devo dire che come tutti gli ospedali del Gruppo Humanitas è un ospedale organizzatissimo. Chiaramente è un ospedale chirurgico e quindi si è dovuto adattare in tempi veramente brevi a gestire questa situazione. E tutti devo dire lavorano giorno e notte per garantire le migliori cure possibili ai pazienti. Tutti quanti, a partire dal Direttore sanitario per arrivare all’operatore OSS che aiuta in reparto. Devo dire che in questo senso non sono mai stata delusa dal mondo Humanitas, sono davvero fiera e orgogliosa di fare parte di questo Gruppo».

HUMANITAS GROUP

Humanitas è un ospedale ad alta specializzazione, centro di Ricerca e sede di insegnamento universitario. Ha sviluppato la sua organizzazione clinica istituendo centri di eccellenza specializzati per la cura dei tumori, di malattie cardiovascolari, neurologiche e ortopediche – oltre che un centro oculistico e un fertility center.