Vaccinazione, diagnosi precoce, accesso alle cure e consapevolezza sono le armi per prevenire l’epatocarcinoma
La Giornata Mondiale contro le Epatiti, che si celebra ogni anno il 28 luglio, è stata istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nella ricorrenza della nascita del ricercatore Baruch Blumberg, premio Nobel per aver identificato il virus dell’epatite B (HBV) e sviluppato il primo vaccino. È un’occasione fondamentale per accendere i riflettori su un gruppo di malattie silenziose ma potenzialmente gravi, che ogni anno colpiscono milioni di persone in tutto il mondo. Eppure, con la prevenzione, la vaccinazione, gli screening e i trattamenti, molte forme di epatite si possono evitare, curare e anche guarire. Vaccinarsi, seguire un’alimentazione equilibrata, evitare il consumo di alcol e aderire agli screening gratuiti messi a disposizione dal Servizio sanitario nazionale sono gesti semplici ma essenziali per proteggere il fegato e la propria salute.
In Italia, si stima che siano 250mila le persone con epatite virale B e circa 300mila con epatite C1. Questi sono numeri importanti, ma in discesa rispetto a 10 anni fa. La ragione di questo cambio di tendenza è stato il grosso impatto che ha avuto la disponibilità dei farmaci antivirali per l’epatite C che ha permesso di guarire oltre 250mila persone. Inoltre, nel 1991 siamo stati tra i primi Paesi a rendere obbligatoria (L.165/1991) la vaccinazione per l’epatite B per tutti i nuovi nati e per coloro che avevano compiuto 12 anni all’epoca.
In concomitanza con la giornata mondiale contro le epatiti è stato pubblicato “The Lancet Commission on Addressing the Global Hepatocellular Carcinoma Burden: Comprehensive Strategies from Prevention to Treatment”, (La commissione di The Lancet sul carcinoma epatocellulare: strategie globali dalla prevenzione alla cura)2. È un documento programmatico, che offre una fotografia dettagliata dello stato dell’arte sull’epatocarcinoma, che tratta anche dei fattori di rischio, dell’eziologia ed è accompagnata da una riflessione su criticità, strategie efficaci e prospettive future. Il tumore al fegato è il sesto più comune e la terza causa principale di mortalità per cancro a livello globale. Il numero di nuovi casi, quasi raddoppierà, passando da 870.000 nel 2022 a 1.520.000 nel 2050, se non verranno modificati gli attuali trend. La commissione ha stimato che il 60percento di questi è prevenibile con il controllo dei fattori di rischio modificabili come le epatiti, grazie alla vaccinazione e ai farmaci, la Malattia epatica associata a disfunzione metabolica (MASLD) e il consumo di alcol.
Il carcinoma epatocellulare, il sottotipo istologico più diffuso, rappresenta circa l’80percento di tutti i tumori primitivi del fegato. In Italia, nel 2024, sono stati stimati 12.6103 nuovi casi di epatocarcinoma, con una prevalenza di 33.800 persone che vivono dopo aver ricevuto una diagnosi. L’incidenza è legata alla presenza di malattie epatiche croniche, come epatite virale, danno epatico da alcol e steatosi epatica.
Tra gli autori del documento – circa cinquanta provenienti da Asia, Stati Uniti ed Europa – figura Lorenza Rimassa, Professoressa Associata di Oncologia Medica in Humanitas University e Capo Sezione Tumori Epatobiliopancreatici presso IRCCS Istituto Clinico Humanitas, unica italiana, chiamata per contribuire alla parte relativa alle terapie sistemiche, ovvero ai trattamenti oncologici. Il lavoro propone un approccio globale articolato lungo l’intero percorso della malattia: dalla prevenzione primaria fino alle cure avanzate.
«Questa non è una semplice sintesi di dati, ma un’opera di indirizzo: un’analisi critica e costruttiva di ciò che funziona, di ciò che è migliorabile e delle azioni possibili per cambiare il corso della malattia – spiega Lorenza Rimassa. L’obiettivo è fornire raccomandazioni concrete, adattabili ai contesti locali, per ridurre l’incidenza e migliorare la sopravvivenza dei pazienti in tutto il mondo».
Tra i contributi è stato selezionato come esempio virtuoso di politica di prevenzione il programma italiano di screening per l’epatite C. Un’iniziativa che intercetta il problema “a monte”: individuare e trattare tempestivamente l’infezione significa, nel lungo termine, ridurre in modo significativo il rischio di sviluppare un tumore epatico. Infatti, nel 90percento dei casi, questo insorge su una malattia epatica cronica preesistente. Le cause più comuni sono: epatite B, epatite C, consumo di alcol e – sempre più frequentemente – la MASLD strettamente legata a obesità, ipertensione e dislipidemia. Un’epidemia silenziosa, in crescita non solo nei Paesi occidentali.
La disponibilità di farmaci e vaccini ha spinto l’OMS a definire una strategia globale per l’eliminazione dell’epatite. L’obiettivo, da raggiungere entro il 2030, è ambizioso: ridurre del 90percento i nuovi casi di epatite B e C e diminuire del 65percento la mortalità correlata. Per l’epatite B, questo traguardo è possibile grazie al vaccino, somministrato a tutti i nuovi nati. Per l’epatite C, invece, l’eliminazione può avvenire intercettando con gli screening i pazienti positivi e con il successivo trattamento.
«Lo screening dell’epatite C è disponibile gratuitamente dal 2020, su base volontaria, per i nati dal 1969 al 1989, inoltre è compresa la popolazione carceraria e coloro che sono seguiti dal Servizio per le Tossicodipendenze– spiega Alessio Aghemo, Professore Ordinario di Gastroenterologia e Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche, Humanitas University e Responsabile della UO Medicina Interna ed Epatologia in IRCCS Istituto Clinico Humanitas – ad oggi sono state screenate circa 2 milioni di persone, di cui quasi 15 mila sono risultate positive e 9 mila sono state curate con i farmaci antivirali ad azione diretta. L’Italia ha fatto passi da gigante, infatti, è al primo posto per pazienti trattati in Europa e al settimo nel mondo4. Un risultato di cui andare orgogliosi e che ci sprona a continuare in questa direzione».
Oggi, sono diverse le opzioni per la cura dell’epatocarcinoma. «Il trattamento dell’epatocarcinoma prevede l’uso di diversi approcci terapeutici e tecniche che possono essere usati da soli, combinati o usati in sequenza in base allo stadio del tumore e al compenso della mattia epatica sottostante. Dal punto di vista chirurgico disponiamo di importanti alternative applicabili alla malattia in fase iniziale – spiega Ana Lleo De Nalda, Professoressa Ordinaria di Humanitas University e Responsabile del Laboratorio di Immunopatologia Epatobiliare di Humanitas, che includono il trapianto di fegato (nei casi di cirrosi scompensata o quando il tumore rientra entro certi limiti di estensione conosciuti come “criteri di Milano”) e la resezione chirurgica (quando la malattia di fegato è ben compensata). Entrambi sono considerati trattamenti radicali e, in una buona percentuale dei casi, possono portare a guarigione». L’ablazione, anch’essa trattamento radicale ma non chirurgico, si usa in casi di lesioni uniche di massimo 3 cm.
Vi è inoltre la radioterapia nelle sue diverse forme (ad esempio radioembolizzazione o radioterapia stereotassica). Quando la malattia è più estesa ma rimane localizzata al fegato l’opzione di scelta è rappresentata dalle terapie intra-arteriose come la chemioembolizzazione transarteriosa (TACE), una procedura minimamente invasiva che può essere ripetuta al bisogno. «L’obiettivo della TACE è di controllare per lungo tempo, – spiega l’esperta -, la malattia e consentire una buona qualità di vita, tuttavia non si arriva alla guarigione. Proprio per questo, sono in corso degli studi che hanno già mostrato ottimi risultati con la combinazione dell’immunoterapia con la terapia locoregionale, ma dobbiamo attendere i dati definitivi».
Negli ultimi anni si è visto un importante avanzamento dal punto di vista terapeutico anche per l’epatocarcinoma in stadio avanzato non suscettibile di trattamenti locoregionali e sono numerose le terapie farmacologiche che possono essere utilizzate. «Nel trattamento del carcinoma epatocellulare avanzato – informa Rimassa –, l’immunoterapia ha rivoluzionato lo scenario terapeutico. Attualmente sono tre le combinazioni approvate da FDA ed EMA: atezolizumab + bevacizumab e durvalumab + tremelimumab (regime STRIDE), entrambe già rimborsate in Italia, e nivolumab + ipilimumab, ancora in attesa di rimborsabilità AIFA. Rispetto agli inibitori tirosinchinasici (TKI), utilizzati in precedenza come prima linea di trattamento e oggi impiegati dopo l’immunoterapia, le combinazioni immunoterapiche offrono più lunga sopravvivenza e migliore qualità di vita, con un minor carico di eventi avversi. In alcuni casi, grazie a risposte importanti, è possibile rivalutare l’approccio terapeutico e tornare a trattamenti locoregionali, come la chirurgia. Un risultato particolarmente rilevante arriva dal regime STRIDE, che mostra una sopravvivenza a 5 anni nel 20percento dei pazienti: un dato senza precedenti per questa patologia5.
Bibliografia
- 1 AISF Libro bianco – Le malattie epatiche definizione e ambiti e interventi per un approccio integrato – LS Cube 2024
- “The Lancet Commission on Addressing the Global Hepatocellular Carcinoma Burden: Comprehensive Strategies from Prevention to Treatment”, The Lancet. 2025 July 28: S0140-6736(25)01042-6. doi:10.1016/S0140-6736(25)01042-6
- AIOM-AIRTUM-Fondazione AIOM-PASSI ISS 202
- Razavi H et al. J Hepatol in press
- Rimassa L, et al. Five-year overall survival update from the HIMALAYA study of tremelimumab plus durvalumab in unresectable HCC. J Hepatol. 2025 Apr 11: S0168-8278(25)00226-0. doi: 10.1016/j.jhep.2025.03.033. Epub ahead of print. PMID: 40222621

